"Non sono il padre con la p maiuscola, sono piuttosto un personaggio che fa il padre. Era un'esperienza su cui non avrei mai scommesso".
E' stata la mia prima intervista.
Lui era già Alessandro Haber e aveva all'attivo tre Nastri d'Argento. Io ero un’implume aspirante giornalista che faceva gavetta nel primissimo sito universitario teatrale. Come dire: una neofita dello sci che affronta la pista Streif di Kitzbuhel.
Mi ha dato retta mezz'ora, mentre col batticuore della gazza ladra rubacchiavo ogni secondo in più che mi concedeva. Finchè, accortosi che dal dito gli avevo preso il braccio (e tutto l'apparato cardio-respiratorio), chiede circospetto: "…ma quanto dura questa cosa?". Da lì ho capito che il dono della sintesi è essenziale per ogni buon giornalista.
Sono passati quasi tre lustri e quell'intervista non si trova più, neanche sguinzagliando la CIA.
Ma i ruoli non sono poi tanto cambiati: Alessandro Haber ha solo la barba un po' più bianca e decine di altri successi in più nella sua "valigia dell'attore". E io? Nonostante una dignitosa carriera che mi ha portato a essere direttore di questa testata, quando parlo con lui...non ce n'è, ho ancora quell'istinto da gazza ladra.
La "valigia dell'attore". Una canzone che De Gregori ha scritto ispirandosi a te. Ci racconti com’è nata?
Casuale, come quegli incontri tra artisti che si stimano. Giocavo a tennis con Mimmo Locasciulli e gli racconto che qualche volta cantavo nei pianobar, soprattutto a fine serata quando i locali si svuotavano. “Haber, che voce!”, mi dicevano. Ma finiva lì. Poi accade che con Locasciulli canto davanti a una platea più ampia e “Il Messaggero” sforna una recensione esaltante. E da lì tutti: “Dai Haber, fai un disco!”. Nasce così l’idea del primo album, Haberrante, dove tanti amici scrivono per me un pezzo...Fossati, Ruggeri, Virzì. Una sera, dopo una cena, rimaniamo in tre: io, Locasciulli e De Gregori, con cui avevo giocato a pallone anni prima. Gliela butto lì: “Me la scriveresti una canzone?”. Mimmo trova il titolo, Francesco la scrive ed…eccoci qua, come dice la canzone.
Ne hai fatte di “cose musicali”. Album, spettacoli straordinari come “Tango d’amore e di coltelli”, anche un omaggio ai Beatles. E in questo Festival di Sanremo duetti con Giusy Ferreri. Cosa ti dà la musica?
Fa parte della mia anima, del mio mondo. Ci ho sempre giocato, mi piacciono le contaminazioni: colgo input che arrivano da ogni dove, e li restituisco. Ma non mi sono mai autopromosso, non ho mai avuto quella continuità di dire “faccio musica”. L’ho sempre goduta a sprazzi, forse ho avuto anche un po’ paura: in Italia siamo fatti a settori, o fai musica o fai teatro, non è come in Paesi come la Francia. Stasera (21 febbraio, ndr) canto a Sanremo e sono agitatissimo. Mi emoziono ancora, il palco mi dà sempre adrenalina.
Porti in scena Bukowski da qualche anno. Cosa ti piace di lui?
Riprendo alcune sue poesie e gioco con la voce e le parole. E’ un recital particolare, che vedrà una nuova versione il 23 febbraio al Parenti di Milano. Bukowski è un’anima unica, irripetibile, un combattente con un’etica sua. Ha scritto il suo primo libro a 50 anni, se ne è sempre fregato dei soldi. La sua è anche un po’ la mia filosofia...se a 20 anni mi avessero detto: “ti diamo dieci miliardi ma devi smettere di fare l’attore”, avrei detto di no. Ho sempre amato troppo il mio lavoro.
Centinaia di ruoli, ma il cliché del personaggio complessato e nevrotico ce l’hai un po' cucito addosso. No?
Forse i miei personaggi si assomigliano, ma perché hanno tutti un’anima, quella che ci metto io, quella che dono con tutto me stesso. Gestisco i ruoli in modo inconsapevole, con generosità. Io ho un approccio animale, sono un istintivo controllato: nei personaggi ci metto tutti i miei colori, i miei umori, le mie sfaccettature. Disegno storie e tratteggio psiche anche con le mie malinconie e le mie perplessità. Quando ho interpretato Bettino Craxi, sua figlia Stefania mi ha pianto sulla spalla per come l’ho evocato con vocalità e gestualità, pur essendo così diversi fisicamente. La bellezza sta anche in questo, nel saper dare, nell'essere generosi. Poi non puoi fare l’ubriaco da ubriaco, lo devi fare da sobrio.
Storie di ordinaria follia, tornando a Bukowski: l'Otello dell'estate 2011. Sei nella tua città, Bologna. Esce un casino per un eccesso di immedesimazione durante le prove e vieni sostituito. Si rivela poi una botta di caldo per tutti, ma i giornali ci hanno sguazzato. Ti è passata l'incazzatura?
Guarda, mi hanno fatto una cosa vergognosa. Ho sofferto tantissimo. Un accanimento mediatico che poteva rovinarmi. Dal teatro mi hanno poi chiesto scusa, con una lettera. In 45 anni di carriera non è mai uscito niente di brutto sul mio conto: certo, ho sbottato, ho litigato, come tutti. Ma non ho mai fatto del male a nessuno, né tantomeno il cretino con qualcuna. Non ho mai saltato una replica neanche con 40 di febbre, sono sempre arrivato puntuale alle prove. Ma ti pare poi che faccio lo scemo in scena davanti a venti persone? L’ho trovato terribile, solo a parlarne mi si chiude lo stomaco.
Chi ti piace della nuova generazione di attori?
Elio Germano, con cui ho lavorato ne “L’ultima ruota del carro”, il recente film di Veronesi, è davvero bravissimo. Mi piacciono molto anche Claudio Santamaria e Fabrizio Gifuni. Altri colleghi che stimo particolarmente – anche se un po’ più vicini a me come età - sono Ennio Fantastichini e Toni Servillo: Toni, poi, ha la fortuna di lavorare sempre su cose eccezionali, con registi straordinari.
E che giovane attore sei stato, tu?
Atipico, da subito. Ho sempre evitato quel perbenismo teatrale, quell’impostazione accademica. Ho cercato di dare un impulso diverso, sono uno vero. Ricordo che avevo trent’anni e sono stato chiamato da Luigi Squarzina, a Genova. Durante le prove mi corregge la pronuncia sulla parola “bosco”, chiedendomi di chiudere la o. Beh, gli ho detto: “Luigi, bosco aperto o bosco chiuso non fa differenza. Se per te è fondamentale, allora questo ruolo non fa per me.”
Tua figlia Celeste ha nove anni. Un ruolo, il padre, senza battute da ricordare. E' più facile o più difficile?
E’ più difficile! Non sono il padre con la p maiuscola, sono piuttosto un personaggio che fa il padre. Era un'esperienza su cui non avrei mai scommesso, l’ho avuta tardi: ora c’è una cosa che prima non c’era, per me lei è un porto sicuro, un rifugio. Non riesco neanche a stabilire un vero rapporto padre-figlia, è come la mia fidanzatina, la adoro. Grazie a Celeste sono molto meno arido, ma sento che comincia a staccarsi…non chiede più, ma fa. E’ sempre più autonoma e so che fra un paio d’anni io e sua madre non saremo più i suoi punti di riferimento primari, ne avrà altri. Ma io, per lei, vorrei essere sempre il protagonista.